2014
Annullamento del matrimonio: la sentenza ecclesiastica che dichiara nullo il matrimonio non è riconoscibile – dunque non produce effetti – nell’ordinamento giuridico italiano, se la convivenza dei coniugi si è protratta per oltre tre anni.
Avv. Matteo Mami / 0 Commenti /Corte di Cassazione, Sezioni Unite Civili, sentenza 3 dicembre 2013 – 17 luglio 2014, n. 16379.
Il caso vedeva Caia promuovere il giudizio avanti la Corte d’Appello volto ad ottenere la dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana della sentenza canonica che aveva dichiarato la nullità del matrimonio concordatario contratto con Tizio.
Avverso tale sentenza Tizio proponeva ricorso in Cassazione deducendo la contrarietà all’ordine pubblico interno degli effetti della predetta sentenza canonica, ciò in ragione del rilievo che la convivenza matrimoniale aveva avuto una durata di molti anni successivamente alla celebrazione del matrimonio ed era stata accompagnata dalla nascita di una figlia, e che una convivenza siffatta integrava un principio di ordine pubblico ostativo alla delibazione, secondo l’orientamento espresso dalla Corte di Cassazione.
La Corte di Cassazione a sezioni unite, sul punto, si è pronunciata stabilendo che la convivenza come coniugi, intesa come consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo, ed esteriormente riconoscibile attraverso corrispondenti specifici fatti e comportamenti dei coniugi, rappresenta un elemento essenziale del matrimonio (rapporto) e fonte per i coniugi di una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili e di responsabilità, anche genitoriali, in presenza di figli.
In tal modo intesa, la convivenza come coniugi, protrattasi per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio concordatario (cioè celebrato in Chiesa e regolarmente trascritto nei registri dello stato civile), è ostativa, per violazione di norme di ordine pubblico interno, alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana delle sentenze definitive di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, per qualsiasi vizio genetico del matrimonio, accertato e dichiarato dal giudice ecclesiastico, secondo quanto previsto dall’ordinamento canonico.
La Corte ha avuto modo di precisare che per convivenza debba intendersi non solo la coabitazione materiale dei coniugi, ma anche il vivere insieme stabilmente e con continuità per un tempo significativo tale da costituire “legami familiari” nel naturale rispetto dei diritti ed obblighi reciproci, tale da dimostrare l’instaurazione del matrimonio.
Tale convivenza deve avere il carattere dell’esteriorità, ovvero di riconoscibilità esteriore attraverso fatti e comportamenti che vi corrispondano in modo non equivoco, e deve protrarsi per un ragionevole periodo di tempo, decorrente dalla data di celebrazione del matrimonio, idoneo a far legittimamente presumere la raggiunta stabilità del rapporto matrimoniale, e trascorso il quale deve desumersi una piena ed effettiva accettazione del rapporto matrimoniale, tale da implicare anche la sopravvenuta irrilevanza giuridica dei vizi genetici eventualmente inficianti l’atto di matrimonio, che si considerano perciò sanati dall’accettazione del rapporto.
Al riguardo, la Suprema Corte ritiene di poter prendere come riferimento, in ragione delle strette connessioni analogiche tra le fattispecie, la L. 4 maggio 1983, n. 184, art. 6, commi 1 e 4, (Diritto del minore ad una famiglia), nel testo successivamente modificato e vigente, secondo i quali: “1. L’adozione è consentita a coniugi uniti in matrimonio da almeno tre anni. Tra i coniugi non deve sussistere e non deve avere avuto luogo negli ultimi tre anni separazione personale neppure di fatto(….). 4. Il requisito della stabilità del rapporto di cui al comma 1 può ritenersi realizzato anche quando i coniugi abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni, nel caso in cui il tribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità della convivenza, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto”.
Tutte le considerazioni che precedono consentono, perciò, alla Corte di affermare in modo compiuto che la convivenza dei coniugi, connotata dai più volte sottolineati caratteri e protrattasi per almeno tre anni dopo la celebrazione del matrimonio, in quanto costitutiva di una situazione giuridica disciplinata e tutelata da norme costituzionali, convenzionali ed ordinarie, di “ordine pubblico italiano”, secondo il disposto di cui all’art. 797 c.p.c., comma 1, n. 7, osta alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze canoniche di nullità del matrimonio concordatario.
Le norme d’ordine pubblico si individuano nelle regole fondamentali poste dalla Costituzione e dalle leggi a base degli istituti giuridici in cui si articola l’ordinamento positivo nel suo perenne adeguarsi all’evoluzione della società, e la cui inderogabile tutela è imposta soprattutto a presidio della sovranità dello Stato.
La Suprema Corte ha avuto altresì modo di chiarire l’irrilevanza, per l’ordinamento giuridico italiano, del vizio genetico previsto dall’ordine canonico, in virtù del quale venga dichiarata la nullità del matrimonio canonico dai tribunali ecclesiastici, nonostante la sussistenza della convivenza coniugale nei limiti e secondo i criteri sopra precisati.
Peraltro, diversamente opinando, ne deriverebbe un’inammissibile invasione del giudice italiano nella giurisdizione ecclesiastica in materia di nullità del matrimonio, riservata esclusivamente ai tribunali ecclesiastici: in particolare, il giudice italiano, al fine di decidere sulla domanda di delibazione sotto il profilo dell’applicabilità del predetto limite generale d’ordine pubblico, dovrebbe, previamente ed inevitabilmente, procedere ad una interpretazione delle singole norme del codice di diritto canonico disciplinanti le fattispecie di nullità ivi previste, distinguendo fra di esse, valicando così inammissibilmente i confini della giurisdizione nell’ordine civile, a sé riservata dalle disposizioni dell’Accordo.
La Corte, infine, ha statuito che il contrasto tra l’indicata condizione di convivenza coniugale, nei sensi dianzi indicati, e l’ordine pubblico interno sia rilevabile solo su eccezione della parte che si oppone alla delibazione, e non sia invece eccepibile dal Pubblico Ministero intervenuto, né verificabile d’ufficio dal Giudice adito.
E ciò in quanto, il limite d’ordine pubblico ostativo alla delibazione non scaturisce immediatamente da una precisa disposizione, ma deve trarsi da una situazione giuridica complessa – la convivenza coniugale, appunto – caratterizzata essenzialmente da circostanze oggettive che devono essere allegate e dimostrate, in caso di contestazione, mediante la deduzione di pertinenti mezzi di prova, anche in via presuntiva.
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